Lis Aganis Publishing House,  novella,  racconto,  storia completa

«Andrej, da questa parte, vieni!» urlò Maja facendomi il gesto di seguirla lungo il sentiero.

Era cresciuta rispetto all’estate precedente, e per quanto rimanesse minuta, il suo corpo era cambiato e non poteva più nascondere la sua femminilità dietro ai capelli color miele tagliati corti o dentro a magliette di due o tre taglie più grandi, l’avevamo notato che ora aveva il seno e che la curva tra la vita e il bacino era più sinuosa.

Avevamo tutti una cotta per Maja, che poi era l’unica ragazza del gruppo, la più avventurosa e spericolata.

Una volta sul picco, guardai in basso le acque smeraldine che scorrevano incastonate tra le rocce bianchissime. Erano almeno cinque metri di dislivello ma non mi preoccupava troppo perché si vedeva che l’acqua era profonda in quel punto. Eppure le gambe tremavano un po’.

«Vorresti saltare da qui?» Riuscii a non balbettare ma sentivo il cuore scalpitare nella cassa toracica.

«Lo fanno tutti.» 

«Chi?»

«I grandi! Mio fratello e i suoi amici di Želinje.» Voltò gli occhi azzurri verso i miei guardandomi con aria di sfida. «Insieme, Andrej!» disse, afferrandomi la mano, un gesto che mi convinse all’istante.

Deglutii e feci un passo in avanti. 

«Non vorrete tuffarvi?» Esclamò uno degli altri raggiungendoci.

Non riuscii a distinguere chi fosse perché ormai era troppo tardi per fermarci. Maja ed io eravamo già sospesi a mezz’aria, a un urlo di battaglia dalle acque gelide del torrente Idrija.

Non avevo ancora compiuto quattordici anni nella torrida estate del 2010, che ricorderò come quella in cui girai Hudiči, il mio primo cortometraggio e baciai Maja, il mio primo amore.

foto: Andraž Žnidarčič, Simon Prinčič

Hudiči – Diavoli

«Merda ho dimenticato la crema! Mi si scotta il viso!» esclamò Maja svuotando il contenuto dello zainetto sull’asciugamano: una bottiglietta d’acqua, una barretta energetica, una mela, il cambio di costume e il cellulare.

«Tieni, ne ho io» dissi prontamente, afferrando il flaconcino dalla tasca laterale del mio zaino.

«Grazie» rispose, quasi sottovoce, allungandosi verso di me.

Alek aggrottò le sopracciglia.

«Perché mai usi crema, Andrej? Sei mulatto.» 

«E che vuol dire? La mia pelle non è mica invulnerabile.» 

Maja lanciò la barretta energetica verso Alek centrandolo in pieno alla testa.

«Ahia! Ma sei scema?» chiese massaggiandosi il punto dove era stato colpito, poi le ritornò la barretta nello stesso modo in cui gli era arrivata.

Maja la schivò.

«Mancata, cretino.» 

Bog aprì gli occhi incuriosito dalla colluttazione mentre Daniele continuò a sonnecchiare indisturbato.

«Che succede?»

«Tuo fratello è un cafone. Ha detto ad Andrej che è mulatto. Non si dice mulatto, è un insulto.» 

Mi sentii avvampare, e ringraziai che il colore della mia pelle avrebbe mascherato il mio imbarazzo. 

Tutta quella scenetta era stata fatta per me?

«Non lo sapevo!» 

«Chiedi scusa, Aleksej.» 

«Scusami Andrej, davvero non lo sapevo.» 

«Grazie ragazzi, ma non c’è problema. Non mi sento offeso da una parola e poi Alek non l’ha certo detto per insultarmi.» 

Alek sorrise, e mimò la parola “Visto?!” verso Maja. Bog alzò le spalle e richiuse gli occhi, mentre Maja mi guardò stringendo gli occhi a fessura come una serpe e appena finì di spalmarsi la crema solare mi passò il flacone con un po’ troppa violenza.

Ma che le avevo fatto?

Maja, i fratelli Bogdan e Aleksej, e l’italiano Daniele, trascorrevano le vacanze estive tra Ukanje e Bajti. Ukanje era il paesino nei boschi sloveni in cui ci eravamo trasferiti qualche anno prima e Bajti lo guardava dalla collina opposta. 

Eravamo più o meno tutti coetanei e quella del 2010 era la terza estate che passavamo insieme anche se, il primo anno, non eravamo stati così affiatati.

Dieci minuti era il tempo massimo che ero riuscito a resistere sdraiato sull’asciugamano, dopodiché avevo lasciato i miei quattro amici a fare le lucertole e mi ero addentrato nel bosco.

Ero talmente preso da quello che stavo facendo, che non mi accorsi di essere stato seguito.

«Cosa fai?» chiese Daniele facendomi trasalire. «Scusa, non volevo spaventarti, pensavo di aver fatto abbastanza rumore» aggiunse.

«Ero troppo concentrato a raccogliere rametti.» 

«A cosa ti servono?»

«Per fare le casette agli hudiči.» 

Daniele rimase perplesso per un istante. Il suo sloveno era claudicante e parlavamo mescolandolo con l’italiano.

«I diavoli, giusto, per il film. Posso aiutarti?»

«Certo, mi servono lunghi e che siano facili da piegare per fare delle specie di nidi.» 

«Nidi… e se li facessimo pendere dagli alberi come fossero dei bozzoli?»

Mi voltai verso di lui che mi guardava con gli occhi colmi di entusiasmo. Aveva avuto un’ottima trovata.

«Potremmo usare del cotone, per simulare delle crisalidi. Cosa dici se iniziamo a lavorarci stasera, dopo cena?» La mia voleva esser più che altro un’affermazione.

Daniele sorrise e annuì.

«Non riesci a stare fermo, eh?»

Scossi la testa.

«Lo so, è fastidioso. Mia mamma dice che sono iperattivo, e forse è la verità perché mi annoio facilmente. La mia mente è sovrastimolata, ho un’idea dopo l’altra e se non mi metto subito al lavoro, divento intrattabile.» 

«Stasera dopo cena andrà benissimo anche perché pioverà. Anzi, propongo di andare verso casa per evitare di lavarci.» 

«Ma cosa dici? C’è un sole che spacca le pietre e penso farò un altro bagno. Comunque credo di aver raccolto abbastanza rametti.» 

«Sai che hai ragione? Quasi quasi mi levo il braccio bionico e faccio un bagno anch’io.» 

Daniele era nato senza una parte del braccio destro e indossava una protesi a cui dava i nomignoli più assurdi. Pensavo fosse solo un burlone, ma con gli anni capii che era il suo modo per sdrammatizzare una situazione di possibile disagio, per farsi accettare maggiormente. 

Un po’ come me, che mi facevo chiamare Andrej, per quanto il mio vero nome fosse André, perché mi faceva sentire più integrato. Ero haitiano di nascita, adottato da bambino e volevo a tutti i costi far parte del branco anche se, dentro di me, mi sarei sempre sentito diverso e senza un vero luogo di appartenenza.

Forse per questo motivo, e per il fatto che il mio italiano era migliore di quello degli altri, Daniele e io avevamo legato molto.

Eravamo quasi usciti dal bosco quando si bloccò all’improvviso e mi guardò con la bocca spalancata.

«Cosa ne pensi se alcuni hudiči li facciamo alati?»

«Penso che meriti di diventare co-autore! Mi stai dando delle idee fighissime.» 

«Ma no, non serve, è il tuo film, Andrej. Mi offrirai una cena quando diventerai famoso.» 

foto: Andraž Žnidarčič, Simon Prinčič

«Pistaaa!»

Piegata sulle ginocchia, in posizione aerodinamica, Maja sfrecciò in mezzo alla strada, con pattini, elmetto e protezioni rosa sgargianti. Lo spostamento d’aria mi fece quasi volare i fogli di mano.

La seguii con lo sguardo, sorridendo come il ragazzino innamorato che ero, mentre scompariva dietro alla curva, scortata dal suo fedele cane pastore, Otto Von Lupo.

Ero uscito di casa subito dopo cena per incontrare i ragazzi per l’ultima riunione prima delle riprese.

«Andrej!» mi chiamò Alek. Stava seduto sul piccolo terrazzamento che delimitava il giardino della casa di fronte alla mia, e si sbracciò, come se non l’avessi visto. Daniele, al suo fianco, trattenne una risata.

«Dov’è Bogdan? Era incaricato dei nidi. Le videocamere sono al pieno di batteria. Come siamo con gli hudiči? E i sacchi a pelo? Le tende? Pensi che il signor Pavel abbia finito il ciak?»

«Ehi, calma! È tutto pronto, non preoccuparti. Sacchi a pelo e tende sono da me, Bog ha imballato i nidi così riusciamo a portarli negli zaini. E i nostri hudiči alati sono in fase di asciugatura. Saranno pronti per domani mattina. Maja ha il ciak, da bere e da mangiare. Stai tranquillo, Andrej» rispose prontamente Daniele. Avevo fatto bene a nominarlo aiuto regista, aveva tutto sotto controllo ed era molto calmo rispetto al sottoscritto.

Mi sedetti vicino a lui e ripresi a respirare.

«Ancora non riesco a crederci che avete usato vecchie action figures di Dragon Ball per i nostri diavoletti. Io ho zero fantasia, voi siete una forza della natura!» 

Il complimento di Alek mi riempì di orgoglio.

La lavorazione di Hudiči era iniziata in primavera, quando io e Daniele eravamo stati molto impegnati a recuperare vecchi pupazzetti snodati tra i nostri giocattoli dismessi o ai mercatini dell’usato. Una domenica avevo convinto mia madre a sconfinare a Trieste e, per una decina di euro, avevo comprato una scatola di personaggi di Dragon Ball, un tesoro preziosissimo.

Non feci nemmeno in tempo a chiedere nuovamente dove si trovasse Bog, che apparve da dietro alla curva in tutta la sua maestosità, trascinando Maja con sé su per la salita.

Ukanje era un paesino di dodici case situato nella valle del torrente Idrija, Judrio per il vicinissimo versante italiano, e consisteva in un unica strada che disegnava una specie di quadrato con un lato aperto. Se si arrivava in paese dal bosco a nord la strada era tutta in discesa e dopo il cartello giallo che segnava la fine del paese, ovvero il lato del ‘quadrato’ lasciato aperto, si trasformava in un unico tornante molto stretto.

Quando la nostra spericolata amica faceva i suoi numeri acrobatici con i pattini, qualcuno doveva stare all’inizio del tornante per controllare che non arrivassero automobili, seppur fossero rare, e piazzare le balle di fieno, per bloccare la sua folle corsa. Maja non era capace di frenare.

Bog vedendomi fece un gran sorriso e con un ultimo sforzo lanciò Maja verso il muretto scatenando Otto Von Lupo, che abbaiò così forte da farci rimbombare la cassa toracica.

«Otto, sit!»

Il cane ubbidì e Maja, issandosi sulle braccia, venne a sedersi vicino a me.

Ora il cuore aveva un motivo in più per accelerare i battiti.

«Hai portato i copioni?» chiese Bog tutto d’un fiato.

Annuii e tra gridolini di entusiasmo, distribuii i fogli a ognuno di loro.

Cadde un silenzio che anche le cicale sembravano voler rispettare.

Poi Alek si lagnò.

«Ma perché devo essere io il primo a morire?»

Scoppiammo a ridere in coro.

«Sono serio! Perché non Daniele, o tu? O Maja, per essere politically correct?»

«È un found footage, hai capito cosa significa?» rispose Maja con la sua solita grazia. «Significa che moriamo tutti, è questo il senso di questa sottocategoria. La registrazione viene ritrovata e non si sa cosa sia successo perché sono tutti morti. Chiaro?»

«No, veramente tu non morirai. Volevo fossi la mia final girl, la classica ragazza che sopravvive, allora ho cambiato la conclusione.» 

«E quando l’avresti fatto?» domandò Bog scorrendo di fretta le pagine.

«Venti minuti fa?» Abbassai lo sguardo e mi massaggiai la nuca.

I ragazzi borbottarono, mentre Maja restò in silenzio.

La considerai una reazione peggiore dei lamenti.

«Possiamo tornare alla versione precedente, se volete.» 

«No!» sbottò Maja, «Mi piace essere la final girl.» 

Posò la mano sulla mia, azzerandomi la salivazione all’istante. «E guai a voi se brontolate ancora. Adesso rileggiamo le battute. Forza!»

Prima che qualcun’altro potesse accorgersene aggiunsi:

«Ehm, forse non è più neppure un found footage.»

«Cosa?»

«Ma! Andrej!!!»

foto: Stella Azzini

«A che ora domani mattina?»

«Alle otto al cartello nord.» 

«No, rimba, devono passare da noi a recuperare i nidi. Alle otto da noi.» 

Per il ripasso generale ci eravamo spostati nel campo dietro la casa di Daniele, ma era arrivata l’ora di andare a dormire.

«Alle otto a Bajti, da Bogdan e Alek. Non dimenticate le balle di fieno» dissi raccogliendo i copioni. Erano mia responsabilità e avevo dei minimi aggiustamenti da fare. Arrotolai il quaderno e lo infilai nel tascone laterale dei pantaloncini. 

Forse valeva la pena fare altre modifiche, pensai.

Maja saltellò verso Bodgan, stringendo i pattini al petto.

«Un ultimo giro, Boggy?» chiese con una vocetta infantile, aggiunse qualche verso stile guaiti di un cucciolo, per farlo impietosire.

Otto Von Lupo alzò le orecchie in allerta.

Non serviva che facesse alcuna moina, tra i quattro, Bogdan era il più cotto, aveva gli occhi a cuore costantemente.

Scendemmo dalla collina e ci piazzammo in mezzo alla strada.

Maja si sedette per terra per agganciare i pattini, Alek e Daniele parlavano fitto, gasatissimi per le riprese del giorno dopo.

Eravamo rilassati, forse troppo perché non ci rendemmo conto che il disastro era in agguato.

Marmitte borbottanti e luci basse, le due Peugeot truccate dei nostri arcinemici erano riconoscibili a chilometri di distanza e, sfortunatamente per noi, erano già sul rettilineo che anticipava il tornante.

Restammo paralizzati a osservare le balle di fieno di fronte a noi, mentre il rumore molesto sovrastava il dolce canto notturno degli insetti.

«È mio fratello!»

«Sono quelli di Želinje!»

«Via, via, via!»

«Il fieno!»

«È troppo tardi, scappa!»

Non c’era da aspettare un momento in più, pensai, e tutto accadde troppo in fretta.

Con la coda dell’occhio vidi Daniele fare dietro front e correre verso casa sua, i due fratelli sparirono nell’oscurità e pensai si fossero teletrasportati. Afferrai la mano di Maja, che indossava un pattino sì e uno no, e l’aiutai a mettersi in piedi. 

La trascinai saltellante dall’altra parte della strada e ci nascondemmo all’interno del campo di granturco.

Riuscii solo a immaginare quello che stava accadendo.

La prima macchina tentò una frenata ma centrò le balle di fieno. I fili di erba secca caddero dal cielo come fuochi d’artificio a Ferragosto.

La seconda continuò la corsa, probabilmente evitando gli ostacoli, e con la classica frenata in derapata, finì in diagonale sulla strada, con i fari puntati dritti dritti nella nostra direzione.

Una portiera si aprì. Poi una seconda, una terza.

Otto Von Lupo abbaiò minaccioso.

Sentimmo imprecazioni, bestemmie che venivano da più voci, anche qualcuna femminile, che non distinsi, poi passi che si avvicinavano.

«Brutti mocciosi di merda!» La voce del fratello di Maja mi tuonò nelle orecchie. Lei mi strinse la mano.

Radek.

Tutti. Odiavamo. Radek. 

Aveva diciassette anni e assomigliava a James Dean, voleva pure vivere come il protagonista di Gioventù bruciata. Aveva un successo strepitoso con le ragazze ma questo non lo rendeva più docile, anzi, era un bullo in tutto e per tutto e da quando aveva legato con quelli di Želinje e Kanal, che erano già maggiorenni, non era che peggiorato.

Noi quattro eravamo i suoi soggetti preferiti per ogni sorta di nefandezza. I nomignoli più gentili che ci aveva affibbiato erano stati: Caffelatte, RoboCop, Tonto e Balena, ma raramente era così delicato.

Io me ne fregavo di come mi chiamasse, ma i miei amici erano sensibili, in special modo Daniele e Bogdan e, per difenderli, mi ero preso qualche bel ceffone.

Gli adulti lo tenevano d’occhio, ma Radek era una faina e la faceva sempre franca.

«Pensi che abbiano fatto danni alle macchine?» bisbigliai.

«Che mi frega! Io sono preoccupata per Otto.» 

Il cane seguitava ad abbaiare, ma i ragazzi dovevano essere troppo presi a constatare i danni.

«Otto Von Lupo è in gamba. Ma una balla di fieno non può aver creato chissà che casino, no? Le usano come protezione durante i rally.» 

«Quei decerebrati hanno a cuore solo le loro macchine. Ehi, hai sentito? Arriva qualcuno.»

Annuii. Una voce, che non sembrava venisse dal gruppetto di giovani, sovrastò il loro parlare concitato.

Era mio papà. Mi sentii sollevato.

Ex preside in pensione, Štefan Volk era un vichingo dai capelli argentati. Aveva il carisma e la pazienza di Albus Silente ma quando la perdeva si tramutava in Odino. Era uno dei pochissimi adulti, dopo suo nonno, che Radek non osava sfidare.

«Andiamo via, Andrej, ora che tuo papà gliene sta cantando quattro. I ragazzi di Želinje mi fanno paura.» Mi strattonò, decisa a inoltrarsi nel campo. 

«Aspetta. Voglio ascoltare.»

«Radek? Cos’è questa cagnara?»

«Signor Volk, ehm, suo figlio e i suoi amici…»

«E tua sorella minore con loro» puntualizzò mio padre.

«Ha… hanno…»

Forse mio padre era in piena fase dio Odino, non mi spiegavo i balbettii di Radek. Se non fossi stato preoccupato di farmi scoprire, non so cosa avrei dato per godermi la scena.

Radek tentò una spiegazione ma mio papà borbottava come era solito fare quando non era interessato. Con gli occhi della mente riuscivo a vederlo scrutare i presenti con la sua aria severa. 

«Ehi, ci sei anche tu, Martin? Martin Vidic? Tu eri a scuola con me, vero? Non dovete andare al lavoro domani, ragazzi?»

«Sì, preside Volk, ero a scuola a Koper.»

«Non lavoriamo domani, siamo in ferie» aggiunse un altro.

«Beh, è tardi, meglio se andate a casa comunque. Qui la gente si alza presto.»

«E come la mettiamo per i danni?» sentenziò Radek, in un moto di coraggio.

«Ma quali danni? Dài una lucidata con la cera e vedrai che non c’è nessun danno. O preferisci che faccia vedere le vostre macchine dal mio meccanico? Scommetto che certi gingilli che avete montato non passerebbero l’immatricolazione.» 

Ci fu un silenzio carico di tensione. 

«Allora? Siamo a posto?»

«Sì, sì. Andiamo» rispose quello che mio padre aveva chiamato Martin.

«Buona notte, ragazzi. E non correte! Questi sono paesi tranquilli, alle persone piace stare in pace.» 

«Buona notte, preside Volk.»

«Ah, e spostate queste balle di fieno dalla strada, per favore. Andiamo, Otto, ti porto a casa.»

I presenti brontolarono, poi fecero tutto quello che gli aveva chiesto mio padre.

«Sono docili come agnellini! Tuo papà gli ha fatto il culo a strisce!»

Annuii. Io e mio padre avevamo un rapporto complesso che sarebbe peggiorato man mano che sarei cresciuto, ma in quella serata di luglio, lo considerai un eroe.

Restammo fermi finchè non sentimmo nuovamente il silenzio attorno a noi, poi Maja si rivolse a me sorridendo.

«Sai cosa mi piace di tuo papà? Che gli piace travestirsi e quando il 5 dicembre durante le sfilate nella vallata interpreta San Nicolò, è così massiccio che fa quasi più terrore dei suoi Krampus.»

Maja continuò a snocciolare complimenti su di lui, mentre il mio unico pensiero era che non aveva mollato la mia mano nemmeno per un secondo. Dovevo approfittarne e ribaltare la situazione a mio vantaggio.

«Ti accompagno. Ti va se facciamo il giro lungo? Non vorrei che tuo fratello ci facesse un agguato.»

«È una buona idea» commentò lei. «Lascio i rollerblade e il caschetto qui e vengo via scalza. Li puoi recuperare per me dopo?»

Mi lasciò la mano ma si appoggiò alla mia spalla. La sorressi mentre si sganciava il pattino e i suoi capelli mi solleticarono il naso. Voltai la testa e diedi vita a una serie di boccacce tentando di trattenere uno starnuto. Quanto romantico sarebbe stato se le avessi sputazzato in faccia?

Il giro lungo, così lo chiamavamo, consisteva nel proseguire lungo il campo di granturco, girando attorno alla casa più a sud, per poi passare dietro casa mia e ricongiungersi all’inizio del paese dove abitavano i suoi nonni. Una passeggiata, inutile, di forse quindici minuti, in un saliscendi di sentieri tra gli orti, invece dei tre minuti che sarebbero bastati camminando sulla strada principale.

Anche il silenzio sarebbe stato dolce in compagnia di Maja, che però era talmente emozionata dal nuovo finale, che non fece altro che parlare come una macchinetta fino al momento in cui entrambi ci bloccammo, rizzando le orecchie.

«Hai sentito?»

Annuii. Avevamo quasi raggiunto le prime case del paese prima che il borbottio molto basso ci avesse allarmato.

«Quel serpente viscido» sibilò Maja, spiando il gruppetto dal nostro nascondiglio dietro un melo.

Radek e altri tre, tra cui una ragazza mora, stavano appoggiati all’auto parcheggiata ancora accesa, al bordo della strada. Il fumo di marijuana li avvolgeva come nebbia novembrina.

Saremmo potuti passare inosservati senza alcun problema, se la mia scatenata amica non avesse deciso che l’emozione della serata non era stata sufficiente.

Si accucciò e tastando il terreno trovò una mela mezza marcia. Sotto il mio sguardo esterrefatto, la lanciò verso la macchina.

La mela si spiaccicò nel mezzo della strada scatenando la curiosità dei ragazzi che alzarono lo sguardo verso di noi.

«Bleeeeah!» urlò Maja uscendo da dietro l’albero.

«Maja, ma che…»

Mi afferrò la mano e ridendo iniziò una folle corsa nel frutteto.

“Come fa a essere così impulsiva? E tutta questa energia! È perfino scalza”, pensai guardandomi alle spalle per capire cosa sarebbe successo.

Nessuno dei tre si mosse, a parte Radek che con un paio di falcate era saltato nel prato e ora ci inseguiva come un mastino.

La situazione era seria ed era necessario accelerare e trovare un nascondiglio. Avevo in mente il posto perfetto, dovevamo solo seminare suo fratello. Passai in testa e trascinando Maja, scesi dalla collina.

Ci ritrovammo a correre sulla strada.

«Dobbiamo superare la curva» le dissi.

Lei rideva e si lagnava allo stesso tempo, per l’asfalto che le graffiava i piedi.

Girammo l’angolo e nel buio della notte, nel crocicchio di strade che portava verso Bajti, scorsi quello che stavo cercando.

Con un’ultima fatica raggiungemmo la garitta e ci infilammo dentro.

La piccola costruzione in cemento stazionava fuori Ukanje dai tempi delle guerre mondiali. Nel passato era stata adibita a protezione del soldato di vedetta e poteva ospitare una sola persona, ma io e Maja eravamo entrambi esili e, appiattiti contro le pareti interne, diventammo invisibili.

Nonostante la sicurezza che non saremmo stati visti, tirai in dentro anche lo stomaco.

Un rumore all’esterno mi fece capire che Radek ci aveva raggiunto. Il borbottio della Peugeot lo seguiva in lontananza. Feci gesto a Maja di stare zitta. Lei annuì, premendo entrambe le mani sulla bocca.

Gli occhi azzurri brillavano. La conoscevo la mia pazza amica e sapevo che stava già figurando un nuovo dispetto.

Le feci no con la testa.

Poi sentii Radek inveire. Anche gli hudiči si sarebbero tappati le orecchie a sentire le sue bestemmie.

«Maja!» sbraitò, fortunatamente rivolto dal lato opposto a noi, «Dovrai tornare a casa prima o poi! Te li brucio quei pattini maledetti! E quanto a te, meticcio, lo so benissimo che sei tu quello che mi sgonfia le ruote della mountain bike. Non ho prove ma ho validi sospetti.» 

Strabuzzai gli occhi, poi mimai “Mi ha scoperto” e portando le mani al collo finsi di venire strangolato.

Maja si coprì il viso, vicinissima a una risata.

«Andiamo, Radek. Che ti frega di loro?» disse la voce femminile, poi una voce maschile ripeté lo stesso messaggio.

Radek borbottò, poi sentimmo la porta sbattere e l’auto ripartire sgommando.

Quando fummo sicuri che erano spariti, mi staccai dalla parete gelida.

«Tuo fratello…»

«Mio fratello è uno stronzo! Ha la faccia da principe azzurro ma dentro è marcio. Mi dispiace, Andrej, davvero. Non so perché si comporta così. Sarà per via della separazione dei nostri genitori o perché odia Ukanje. Si trovasse un lavoro estivo, almeno. Non ha voglia di fare un cazzo.» 

Alzai le spalle.

«Non mi interessa per me, ma non mi è piaciuto che ti minacciasse.» 

«Non devi preoccuparti. Dice tanto ma non fa mai niente. E poi mi so difendere» disse, dandomi un piccolo pugno alla spalla. «Ahia, i miei piedi…»

Le sorrisi ma mi distrassi, attirato da una musica portata dal vento.

«La senti la musica?»

«Siii» rispose e si aggrappò alla finestrella per osservare fuori. «Arriverà da qualche festa oltre il confine. Ascolta. Adoro questa canzone, è Candy di Paolo Nutini.» 

Iniziò a canticchiare e io restai immobile a osservare quanto fosse incantevole nei semplici movimenti che faceva. Infilò i ciuffetti ribelli di capelli dietro l’orecchio per poi giocherellarci.

«Dài, balla con me» disse mordendosi piano piano il labbro inferiore.

«Ma io non…» 

Non aspettò e mi afferrò le mani continuando a canticchiare. Era ignara del fatto che dentro di me si stesse combattendo una battaglia. Volevo baciarla, ma cosa sarebbe successo alla nostra amicizia? Ci tenevo a lei e agli altri, eravamo in un perfetto equilibrio che non doveva cambiare.

Baciarla sarebbe stato come tradire i miei amici, finire dritto dritto all’inferno con i miei hudiči a punzecchiarmi il sedere.

Ma l’istinto ebbe il sopravvento e mi avvicinai, dandole un velocissimo bacio sulla bocca, poi andai a sbattere contro la parete della garitta, pentendomi subito di quello che avevo fatto.

«Scusa, non…» sussurrai a una Maja stupefatta. 

Lei si portò l’indice alle labbra, poi strinse gli occhi e con un passo si trovò a un centimetro da me.

Avvertivo il suo respiro al profumo di chewing gum alla fragola. 

«Final girl, ora capisco» bisbigliò. 

Non potendo arretrare oltre, chiusi gli occhi desiderando di sentire di nuovo la sua bocca morbida sulla mia.

“Così questo è baciare una ragazza?” pensai. “Fuochi d’artificio che vanno dalle labbra alla punta dei piedi?”

Beh, se dovevo andare all’inferno almeno prima sarei passato per il paradiso.

foto: Stella Azzini

«Brindiamo al primo giorno di riprese» disse Bogdan spingendo verso l’alto la linguetta della lattina di Coca-Cola. Gli altri lo seguirono, io feci ‘cin cin’ con la mia solita noiosissima bottiglietta d’acqua.

«Ma non potevi fare uno strappo alla regola almeno oggi?» commentò Alek facendo delle smorfie per trattenere un rutto.

«Alek, Andrej ha detto mille volte che non può bere bibite gassate. Sicuro non ci sia segatura lì dentro?» Maja gli bussò con le nocche sulla testa e Alek la cacciò via infastidito.

I miei genitori mi avevano proibito in modo tassativo di bere bibite zuccherate. In particolare mio padre era arrivato a minacciarmi:

«Se scopro che hai bevuto anche un solo sorso di Coca-Cola o altre schifezze simili, ti faccio prescrivere psicofarmaci all’istante, e non scherzo!»

Con me mio padre era molto severo, spesso esagerato, ma su questo aveva ragione, mi bastava pochissimo per sovrastimolare il mio cervello e nessuno voleva avere che fare con un Mr. Hyde adolescente, neppure io.

Il brindisi era stato fatto, il set costruito e tutto era pronto per iniziare. 

«Ci sei, regista?» domandò Daniele con in mano il ciak rudimentale che ci aveva costruito il signor Pavel, il nonno di Maja e falegname del paese.

Annuii, avevo il cuore in gola e le mani mi sudavano un po’.

«Ai… ai vo… vostri posti» balbettai.

I ragazzi, per quello che mi parve un tempo lunghissimo, restarono fermi, poi presero posizione come da istruzioni.

«Motore» annunciai. 

Premetti il pulsante di accensione della mia videocamera e Daniele accese quella sul treppiede.

«Ciak!» gridai, questa volta con maggior sicurezza.

«Hudiči, scena uno, take uno!» gridò Daniele di rimando e un sonoro ‘clap’ mi lasciò mezzo inebetito.

Poi sentii una voce rimbombare nelle orecchie. Era ferma, sicura, determinata, e pronunciò una singola parola: azione!

Era la mia voce!

Per la prima volta in assoluto avevo dato vita al rituale che avrei ripetuto infinite volte nel futuro.

foto: Stella Azzini

Eccone un’altra!»

«Wow, quella era grossa! Allora esprimerò due desideri.»

«Alek, non puoi! Una stella cadente vale per un desiderio» lo sgridò Maja. 

Alek bofonchiò qualcosa ma, conoscendolo, avrebbe fatto di testa sua, e non aveva tutti i torti. Chi aveva mai detto che dovevano esserci regole per la notte di San Lorenzo?

Avevamo finito le riprese quella mattina e ci stavamo rilassando nel giardino di casa Zupan, da Bodgan e Alek e saremmo rimasti tutti a dormire lì, nei sacchi a pelo.

Cinque ragazzini con il naso all’insù con una lunga lista di desideri da esaudire.

«Shooting star» esordì Alek, «in inglese si dice così, stella sparata. Fa ridere no?»

«È curioso. Come si dice in francese, Andrej?»

La voce di Maja mi arrivò del tutto inaspettata. Con le riprese di Hudiči nel pieno dello svolgimento, non avevamo più parlato del bacio che ci eravamo scambiati. Ma ormai libero dal pensiero del film, ero ritornato a quella sera di qualche settimana prima.

«Eh?» chiesi con un tono di voce un po’ troppo alto. «Cosa ne so? Studio inglese a scuola» aggiunsi con un’alzata di spalle.

Maja alzò le sopracciglia. 

«Non si parla francese a Haiti?»

Sul momento non capii poi, sotto lo sguardo d’attesa di tutti, mi risvegliai dal torpore.

«Ah, sì, certo, è la lingua ufficiale, ma io parlavo il creolo, che è un francese imbastardito, ma ormai l’ho scordato.»

Maja si allungò e mi posò la mano sulla spalla.

«Scusa Andrej, sono io questa volta a doverti delle scuse. Ho dato per scontato che tu parlassi francese. Sono stata superficiale.»

Abbassò lo sguardo mentre gli altri mi osservavano aspettando la mia risposta.

«Non è un problema, Maja, davvero. E sapete che vi dico? Dovremmo smetterla di scusarci sempre tra di noi. Se non sappiamo una cosa dell’altro basta chiederla, senza farsi paranoie. Siete d’accordo?»

«Sì» risposero all’unisono.

«A scuola da me facciamo un gioco, a turno si pone una domanda all’altro che deve rispondere con sincerità. Potremmo provarci» propose Daniele.

«Tipo Truth or Dare? Verità o sfida?» domandò Maja accarezzandosi il mento.

«Sì, solo che noi diremo solo la verità.»

«Okay, inizio io!» Alek alzò la mano. «E voglio fare una domanda a te.»

«Allora poi io farò una domanda a Bog e poi lui a Maja e così via» spiegò Daniele.

Cercai di non guardare Maja che si trovava alla mia destra.

«Posso iniziare?»

«Vai!»

«Non fare domande sceme, Aleksej» lo riprese suo fratello.

«Non è una domanda scema! Vorrei sapere se… ti dà fastidio la protesi?»

Restammo tutti in silenzio scambiandoci sguardi. Bog fece il gesto di tirare una sberla a suo fratello. Per sua fortuna non erano seduti così vicini. 

«Avete detto che potevo fare qualsiasi domanda!» si lagnò.

Alek era il più puro tra noi cinque, non aveva filtri e in fondo stava chiedendo qualcosa che eravamo tutti curiosi di conoscere.

«Non ho problemi a risponderti» disse Daniele con un sorriso, «sì, a volte mi dà fastidio, ma non ci faccio più molto caso. Quando sono con qualcuno che non conosco, un po’ mi imbarazza, tendo a nascondermi, ma tra voi mi sono sentito subito a mio agio e poi ho promesso a me stesso che la mia disabilità non sarà mai un limite. Ho risposto alla tua domanda?» aggiunse, e Alek annuì. «Adesso tocca a me fare una domanda a Bogdan. Qual è la cosa che ti spaventa di più in assoluto?»

«Radek» rispose immediatamente Bog, scatenando l’ilarità generale. Ma durò poco perché notammo che la sua espressione era di puro orrore.

«Senza offesa Maja ma non scherzo.»

«Non mi sento offesa.»

«Radek ha qualcosa di deviato, come i serial killer della TV e forse, più che di lui stesso, ho paura che un giorno aprirò il giornale e troverò qualche brutta notizia, tipo che ti ha uccisa nel sonno.»

«Oddio!»

«Tutto qui, volevate fossi sincero e lo sono stato.»

«Oh, Boggy, sei molto dolce ma non preoccuparti, ti svelo un segreto: Radek mi ha confessato che vorrebbe andare a stare con nostro padre a Maribor, aspetta solo di diventare maggiorenne.»

«Stai dicendo che questa potrebbe essere l’ultima estate di terrore?»

«Sì!»

Ci fu un’esclamazione di gioia generale, ma era una mera illusione, non ci saremmo liberati di lui così facilmente.

«Propongo di aprire i marshmallow per celebrare e alleggerire un po’ l’atmosfera» annunciò Daniele, rovistando nel suo zaino.

Incrociò il mio sguardo inquisitore e rispose alla mia domanda senza nemmeno che gliela ponessi.

«Sono vegani! Non mangio quelle schifezze fatte con scarti di poveri animali.»

Alzai gli occhi al cielo. Daniele a quindici anni era già un vegetariano convinto e io mi divertivo a provocarlo raccontandogli di tutta la carne che mi ingurgitavo.

Innumerevoli marshmallow dopo, Bog si rivolse a Maja:

«A chi hai dato il tuo primo bacio?» Le chiese tutto d’un fiato per poi infilarsi in bocca due marshmallow assieme.

Maja ridacchiò e avvertii un brivido lungo la schiena. Le regole del gioco erano chiare, non poteva mentire.

Afferrai una manciata di marshmallow e imitai Bog.

Dopo quella che parve un’attesa infinita, rispose:

«Un mio compagno di classe, si chiama Vitko.» Tirai un sospiro di sollievo. Maja proseguì: «È successo prima di Natale, durante la ricreazione, ma non è stato un granché. L’ultimo bacio che ho dato… di quello ho un bel ricordo.»

Un marshmallow mi si incollò alla gola, tentai di non mostrare che mi stavo soffocando e afferrai la mia bottiglietta d’acqua. 

Maja mi guardò con un sorrisetto che tra noi due diceva tutto.

Deglutii aspettandomi di dover rispondere a una domanda davvero imbarazzante. Invece si fece seria.

«Che ricordi hai di Haiti, dell’orfanotrofio?» chiese lasciandomi spiazzato.

Mi massaggiai la nuca.

«Ne ho pochi e per fortuna sono piacevoli. Ricordo che l’edificio aveva le pareti arancioni ed era in mezzo alla campagna. Giocavamo a pallone e a rincorrerci facendo ammattire i missionari. Ho un paio di fotografie ma niente più.»

«E quando i Volk ti hanno adottato, quanti anni avevi? Hai conosciuto anche altre famiglie?»

Per un istante pensai di lamentarmi che non era valido farmi più di una domanda, ma quando notai le quattro paia di occhi incollati a me, decisi che avrei risposto a tutto quello che mi avrebbero chiesto.

«I miei sono stati gli unici a visitarmi. La prima volta che li ho visti avevo forse cinque anni. Tutti i miei amici erano stati adottati ed erano rimasti solo ragazzi grandi, per cui non vedevo l’ora di avere una famiglia anch’io. Quando sono arrivato in Slovenia avevo appena compiuto sei anni.»

«E i tuoi genitori naturali? Chi sono?»

«Non lo so. Ho fatto anch’io queste domande a mia madre. Mi ha detto che molti bambini, come me, vengono lasciati negli orfanotrofi a causa dell’estrema povertà, non sempre perché sono orfani. Comunque dei miei genitori biologici non si sa quasi niente e non vedo perché i miei avrebbero dovuto nascondermi certe informazioni, per cui ho smesso di chiedere. Di loro due conosco solo il nome di battesimo. Mia mamma era del posto, si chiamava Marguerite, ed era giovanissima.» Voltai lo sguardo verso Maja e premetti gli incisivi contro il labbro inferiore, avrei voluto aggiungere che sapevo che aveva la sua età quando mi aveva avuto, ma non lo feci. «Immagino che mio padre fosse bianco, magari un turista, o un missionario. Io porto il suo nome.»

«Tuo papà era sloveno?»

«No, Alek. Lo sai bene che il mio vero nome non è Andrej ma André. André Lestat per la precisione.»

«Lestat, come il vampiro?» chiese Maja, rimanendo a bocca aperta.

Non avevo mai rivelato il mio secondo nome, lo trovavo scemo, ma a giudicare dal suo entusiasmo mi sbagliavo di brutto.

Annuii.

«Allora forse tuo padre non era bianco, ma un vampiro!»

Scoppiammo tutti a ridere all’esclamazione di Alek. Bogdan cadde all’indietro sull’erba con una ridarola incontrollabile.

«Questo spiegherebbe il mio amore per la carne al sangue» aggiunsi, guadagnandomi lo sguardo contrariato di Daniele e un marshmallow in faccia.

Il giro si concluse con la mia domanda per Alek, su come si sarebbe visto da quel momento a dieci anni, e lui ci intrattenne con un monologo spassosissimo sui suoi sogni per il futuro. In ordine avrebbe voluto fare: il cardiologo, il musicista rock, il biologo marino e il Papa.

Quando fu l’ora di dormire, mi ritrovai a vagare con la mente alla mia prima infanzia, a immaginare dove potessero essere i miei veri genitori e a quello che aveva detto Daniele sul non porsi limiti.

«Daniele?» bisbigliai, «Stai dormendo?»

Restai in attesa, ma non ci fu che silenzio, allora chiusi gli occhi e cullato dall’infinità del cielo stellato e dal canto ritmico di grilli e cicale, mi addormentai.

foto: Stella Azzini

La sera della prima di Hudiči era arrivata in un battibaleno. Avevo camminato in cerchio in camera mia finché non mi avevano chiamato per la cena, che ero riuscito malapena a toccare.

Mossa da pietà, mia mamma era ricorsa a mali estremi, ovvero uno dei suoi intrugli.

«Solleva la lingua, Andrej» comandò. 

Obbedii e lei mi svuotò l’intero contenuto della pipetta del mix di valeriana e qualche altra erba magica che aveva raccolto.

Feci una smorfia quando il liquido amaro si sparse nella mia bocca.

Farsi di gocce calmanti. Pa-te-ti-co.

Mamma scosse la testa, mi aggiustò il colletto della polo poi mi stampò un bacio sulla fronte.

«Andiamo?» chiese papà con la mano sulla maniglia della porta. Non capivo il perché di tanta fretta, non avrebbero iniziato senza di me.

Mia sorella maggiore, Esther gli stava aggrappata al braccio. Mi stupì che avesse deciso di venire con noi, era timida e schiva come un coniglietto, l’unico momento in cui usciva dalla tana era quando suonava il pianoforte. A fianco a mio padre sembrava ancora più fragile.

Appena posai il piede fuori, un sorriso si dipinse sul mio viso.

Tutto il paese era stato trasformato e in molti dovevano essere stati coinvolti nella preparazione, visto che pareva di essere a una sagra! 

Le luci di ogni casa erano state spente e candele, al profumo pungente di citronella, segnavano il sentiero che portava al campo dietro alla casa di Daniele.

I miei amici mi aspettavano sotto al grande fico. 

Mi voltai a guardare i miei: mia madre e mia sorella sorridevano, mio padre rimase sostenuto.

«Vado!» annunciai, correndo incontro ai miei amici.

«È fantastico! Lo sapevate? Pensavo avremmo proiettato il film nella taverna di Daniele» chiesi una volta raggiunti.

«No! È stata una sorpresa anche per noi. Sul momento non capivo perché mia mamma sfornava una torta dietro l’altra» commentò Daniele e con un gesto della testa indicò il tavolo su cui erano state posate delle torte dall’aria invitante.

«Mio nonno e tuo papà hanno costruito l’impalcatura per lo schermo. Mia nonna ha cucito insieme le due lenzuola.» 

«E a quanto pare nostro padre è il fornitore ufficiale di vino e birra, rigorosamente prodotte da lui» aggiunse Bog, «e ha dato una mano a tuo papà con il proiettore.» 

Tutte le sedie disponibili erano state portate nel campo e man mano che passavano i minuti più compaesani arrivavano. 

Mi ritrovai a sorridere a mo’ di paralisi quando vidi che persino gli abitanti della valle opposta ci avevano raggiunto, poi intravidi una zazzera di capelli biondo platino e mi si gelò il sangue nelle vene.

Radek conversava pacifico con il padre di Alek e Bog. Sollevò il bicchiere di birra nella mia direzione e con uno sguardo carico di sfida, che avevo visto più e più volte in sua sorella, mi fece un cenno di saluto. Non era amichevole, lo sapevo.

Maja si accorse che ero diventato verde in viso.

«Non preoccuparti, Andrej. Mio nonno gli ha detto che se osa disturbare la mia serata d’onore, vorrei ricordare a tutti che sono la final girl,» disse ravvivandosi i capelli come fosse stata una diva, «gli afferrerà le palle e gliele inchioderà alla stufa.» 

«Ohi!» D’istinto noi maschietti ci posammo le mani sui gioielli di famiglia, e prima che Alek potesse domandare come fosse possibile fare una cosa del genere, il pubblico si fece sentire a gran voce.

Era ora di proiettare Hudiči.

foto: Stella Azzini

“Ma perché ridono?” pensai, riguardando la scena in cui Maja viene attaccata da uno degli hudiči mentre si trova nel sacco a pelo.

Controcampo del diavoletto: Vegeta, dipinto di nero con macchie gialle come le salamandre. Primissimo piano sui suoi occhi rossi.

Altra risata sguaiata del pubblico.

Due hudiči scendono in picchiata da un albero dritto verso il collo di Alek. Fiotti di succo di barbabietola inzaccherano la sua t-shirt candida.

Alek esala l’ultimo respiro trascinandosi nel fango, gorgogliando e sputacchiando altro succo. 

Ottima interpretazione.

Commenti inorriditi da parte dei compaesani. Adesso sì, che godevo di più.

La scena finale si chiude su Maja, di schiena che cammina nel centro della strada. Ha gli abiti ridotti a brandelli. Dettaglio dei suoi splendidi occhi azzurri. Intravede il paese in lontananza. Inizia a correre, ridendo istericamente. 

Un chiaro omaggio a The Texas Chainsaw Massacre

È sopravvissuta, ma a che costo? Chi le crederà? La sua vita è ormai rovinata… 

Volevo fossero questi i pensieri che dovevano balenare nella testa dei presenti prima della dissolvenza in nero.

Il tempo si dilatò e il mio cuore smise di battere, poi un urlo di giubilo e una serie di applausi lo fecero ripartire.

Era piaciuto, il nostro, il mio film, era piaciuto! 

Avevo lo sguardo di tutti addosso ma mi sentii più che osservato, esaminato. 

Maja sorrise e mi prese per mano e ci avviammo tutti e cinque davanti allo schermo, dove sotto altri applausi scroscianti ci inchinammo al pubblico. Perfino Radek sorrideva, scosse la testa e mi fece il gesto con il pollice in su. Anche il mio acerrimo nemico aveva approvato?

Voltai la testa e notai mia madre asciugarsi le lacrime e sull’istante non capii se fosse per l’emozione di aver assistito alla mia prima fatica cinematografica o per quello che, a caratteri cubitali, appariva ora sullo schermo: soggetto e regia di André Volk. 

Finalmente avevo avuto il coraggio di usare il mio vero nome.

foto: Stella Azzini

Era arrivato il giorno più temuto, quello degli addii. Alek e Bogdan erano andati via in mattinata, Maja e famiglia avevano in programma di partire per Ljubljana da lì a qualche ora.

Mi sentivo molto triste, ma almeno Daniele sarebbe rimasto ancora una decina di giorni visto che le scuole in Italia aprivano a metà settembre.

Entrambi stavamo aiutando Maja a caricare la macchina, quando lei voltò i suoi splendidi occhi azzurri verso di me.

«Andrej, ehm, volevo dire André, dovrò abituarmi a chiamarti così» disse dandomi una spinta affettuosa. Poi abbassò la voce: «Posso parlarti un attimo in privato?»

Feci di  con la testa e lei mi fece gesto di seguirla. Daniele sbucò da dietro la pesante tenda che copriva la porta di casa con altre borse cariche di vestiti della nostra amica e ci guardò stringendo gli occhi, ma non proferì parola.

Quando raggiungemmo il dietro alla casa Maja, restò in silenzio fissandosi le infradito e capii che questa situazione non avrebbe portato a niente di positivo.

Alzò il viso ma senza guardarmi davvero, mi mitragliò di parole.

«André, quel bacio è stato… è stato davvero carino, ma ho pensato che abitiamo lontano, ci vediamo solo d’estate e poi sono più vecchia di te e siamo troppo amici, non voglio rovinare le cose tra di noi e neppure con gli altri e…»

“È stato carino? Sono più vecchia di te? Capirai, di un anno” pensai, tentando di mantenere un espressione neutrale, ma non potevo farla continuare, mi stava asfaltando il cuore.

«Per fortuna che l’hai detto tu!» la interruppi e iniziai la mia perfetta performance teatrale, «Sono d’accordo con te, viviamo troppo lontano e poi non voglio che si guasti l’equilibrio nel gruppo o la nostra amicizia.» 

«Tu sei troppo importante per me!» Mi si gettò addosso e la strinsi, ma cercando di rimanere distaccato. «Ti voglio bene» sussurrò.

«Ti voglio bene anch’io» risposi, senza esitazione e nonostante il terremoto di emozioni che provavo.

Quando ritornammo da Daniele, Maja era allegra come sempre e io cercai di nascondere la delusione per essere stato messo nella dannata friendzone, esibendo un sorriso esagerato. 

Almeno mi aveva detto che mi voleva bene!

Non ne parlai con nessuno, neppure con Daniele e avrei dovuto aspettare i ventun anni, qualche drink di troppo e il castello di Ljubljana come complice, per baciare Maja per la seconda volta.

foto: Stella Azzini

Hudiči vinse il primo premio nella categoria horror in un concorso scolastico per under 18, dandomi la motivazione giusta per proseguire con la mia passione.

Noi cinque avremmo trascorso molte altre estati spensierate, girato svariati cortometraggi più o meno interessanti e ci sarebbero altre storie da raccontare. 

Come l’estate degli avvistamenti UFO, quella in cui ci intrippammo con la stregoneria, o quella epica dei miei diciassette anni, in cui rubammo l’erba a Radek e ci fumammo le prime canne al solito posto sul torrente Idrija, per poi concluderla a botte con i ragazzi di Želinje. Fu così che mi procurai la cicatrice sopra al labbro.

Il cinema all’aperto nei sabati sera di agosto è una consuetudine che il paese porta ancora avanti e, a quanto pare, iniziano sempre con un mio film.

Cosa darei per vedere le loro facce!

E Daniele? Con lui sono in stretto contatto. 

Ha intrapreso la carriera di scrittore e, almeno una volta all’anno, gli offro la cena in un ristorante, rigorosamente vegano.

Non poter gustare una succosa bistecca per me è una tortura, ma se è il prezzo da pagare per averlo come sceneggiatore nei miei film, mangio volentieri quattro foglie di insalata cosparse di semi.

L’estate del 2010, e Hudiči, avranno un posto di riguardo nei miei ricordi e nel mio cuore, per sempre.

Non è stato solo il mio primo lavoro da regista, ma un insegnamento per la vita, un mantra che mi ripeto allo sfinimento.

«Circondati di persone fidate, André, magari poche, ma che siano meritevoli della parola amico

Hudiči – Diavoli © 2023, Stella Azzini

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